Aperitivi a progetto

Non si può andare avanti così, con questa storia degli aperitivi.

Mi spiego: il rito dell’aperitivo non è un male, anzi. Credo sia una delle poche cose ‘importate’, addirittura da luoghi esotici quali Milano o Torino – dove la tradizione vanta natali antichissimi, risalenti al 1800, pare – che abbiano pubblica utilità. Basti pensare quanto sia catartico, appena usciti dal proprio ufficio, fiondarsi nel primo bar accogliente e ordinare qualcosa, per poi tornare di corvée presso i propri impegni domestici. Dunque, non è l’aperitivo a scatenare in me questo sentimento che oscilla tra il disappunto e il fastidio. E’ semmai la declinazione perversa dell’aperitivo, ovvero l’apericena, che segna tragicamente la deriva del genere umano. L’apericena: un tentativo faticoso però vano di risultare simpatici e accattivanti, direi giovanili, nell’accezione meschina del termine. Una crasi malriuscita che ha come unico risultato quello di non sfamarsi, ma in compenso bere male. Voi bartender, che venite selezionati non solo per il vostro talento nel consigliare la bevanda giusta a seconda dell’umore del cliente, ma soprattutto per la vostra indiscussa avvenenza, ditemi: cosa c’è che non va nel proporre un aperitivo che sia solo un preludio ad un pasto vero e proprio? Perché volete ingolfarci lo stomaco già disastrato dallo stress, con pizzette stantie spezzettate ad arte, tramezzini risalenti all’Età del Bronzo, patatine all’uranio impoverito? Lo so io perché. Perché stiamo vivendo una vita Co.Co.Pro. Una volta gli spasimanti ti invitavano a cena. Era dura prova prendersi le misure nella scelta del menu e dei vini, e nel sostenere una conversazione per almeno due portate e un dolce. L’apericena impedisce ogni tentativo di sondare la persona che si ha di fronte. Se poi il luogo dell’appuntamento è il locale di fiducia del corteggiato, c’è anche l’opzione salvagente offerta dai soliti avventori in grado di strappare dall’eventuale noia il poverino. Pertanto lo spasimante, al termine del suo Americano, verrà liquidato senza spiegazioni né indennizzo. La mia familiarità con queste tecniche da Fonzie è sospetta, effettivamente. L’apericena è l’ennesima dimostrazione che noi, timidi protagonisti qualsiasi di una provincia pruriginosa, fuggiamo da ogni tentativo di impegno. E che voi, validi bartender, dovreste agire come supereroi moderni e salvarci dal gorgo dell’incertezza. Un paio di Spritz (magari serviti nei bicchieri adeguati, non sarebbe male), una ciotola di olive, e dimenticatevi del nostro tavolo. Solo così ci costringerete a fare il salto nel buio: un pasto vero, in un vero ristorante.

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