Friccicori fuori tempo massimo.

Soffro di inquietudine giovanile.

Giuro che è vero, inquietudine giovanile; poco importa se tra una manciata di giorni – ma soprattutto se mi regge ancora la pompa – arriverò a quarantun’anni. A questa età ho imparato a misurare le persone facendo tasselli come si fa con i cocomeri e altrettanti ne sono stati fatti a me; non è una cosa per la quale rimanerci male. Si naviga a vista ed è meglio non perdere tempo, che ne rimane poco e non va sprecato.

Ecco, poco tempo. Saranno gli ultimi schioppi che ho in canna a farmi ribollire il sangue come un’adolescente, una reazione incontrollata, il retaggio che proviene dall’uomo primitivo e che secoli di evoluzione della specie non hanno potuto cancellare: circondarsi di gioventù per sperare in un processo osmotico. Un po’ come il principio caro a Erzsébet Báthory che amava mantenere la pelle tonica facendo rilassanti bagni nel sangue delle vergini del suo stesso rango, e chissà che fatica trovarne.

Il fatto è che mi sono persa di fronte a un tramonto in technicolor condiviso con un gruppo di meravigliosi giovani; ci trovavamo in mezzo alla vigna e tra due querce centenarie era stato sistemato un pianoforte a coda lungo così, inoltre c’era da bere Grecante Caprai a litri e lentamente ad ogni sorso diventavo più buona e bendisposta verso la vita. Poi ci ha pensato Giovanni Guidi a sciogliere cuore e coratelle, attaccando il pianoforte mentre il sole scompariva dietro la collina e i pioppi muovevano le fronde ondeggiando verso di noi spettatori immobili; l’ultimo grillo si è messo a frinire un po’ troppo vicino alle corde del piano e la sera è scesa così, lentamente, perché tutto era sospeso in una dimensione sconosciuta.

A notte fatta, gran parte dei partecipanti hanno battuto la ritirata e io sono rimasta tra le due querce insieme a pochi altri entusiasti, una ventina in tutto. Guidi ha deciso che quello era il momento giusto per suonare davvero, così ci siamo accucciati attorno al pianoforte, al buio e senza fiatare, unici spettatori del concerto in esclusiva più emozionante di sempre. Del pianista si percepiva solo la trasfigurazione dei lineamenti, stravolti dal trasporto con cui batteva i tasti; io mi sono allungata stendendo schiena e gambe sopra due cuscini, lo sguardo rivolto verso le fronde aggrovigliate delle querce, respirando odore di terra calda: stavo facendo esattamente quello che volevo fare ed ero sola e felice.

Un po’ troppo sola.

Nei pensieri guidati dalla musica – ricordo precisamente la variazione di Blue Moon –  mi sono trovata a cercare una mano da stringere in  silenzio, e la necessità di pomiciare. Un bisogno fisico al limite dell’insopportabile; sarà stata colpa del vino, dell’odore di terra che riempiva le narici, della variazione piena di note pestate compulsivamente, ma io volevo fortemente infilare una spanna di lingua nella bocca di un accompagnatore che non c’era. Si trattava di una necessità impellente, quasi dolorosa.

Ho aperto gli occhi quando Giovanni Guidi ha staccato le mani dal piano scusandosi timidamente per la fine della performance: aveva bisogno di cambiare la maglietta. Improvvisamente ho realizzato che mi trovavo stesa tra alcune coppie di trentenni carini e cromaticamente compatibili tra loro, mentre io non ero ringiovanita di un giorno; anzi la sosta tra i cuscini ha acuito alcuni dolorini alla schiena che mi porto dietro da un po’ di tempo.

Sono scappata a gambe levate temendo che la macchina si trasformasse in zucca. La festa si deve abbandonare quando è ancora in corso.

Il giorno dopo il corpo mi ha lanciato segnali chiari: dentro al cuore posso sentire ancora i friccicori giovanili, ma la carcassa sa che non è più tempo di acrobazie tra i filari, e il moroso quasi coetaneo è una certezza granitica: non importa quanto vuoi sembrare giovane fuori; l’importante è avere accanto una persona che voglia pomiciare a lungo con te nonostante l’ora tarda e il telaio a pezzi.

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