I figli degli altri.

Forse è vero, le donne che non hanno figli possono immaginare solo vagamente quanto sia potente, totale e assoluto l’amore di una mamma. Ma le mamme hanno idea di quanto possa essere travolgente, robusto e per nulla scontato l’amore che una donna dà ai figli acquisiti? Quelli cioè, che sono nati da altri lombi e che sono lì a dimostrare ogni secondo quanto forte sia stato l’amore che c’era prima di noi? Riflettono mai su quanto sia sorprendente la teoria del caos, che unisce per sempre persone incompatibili tra loro assicurando una progenie forte delle diversità acquisite?

Ogni mese maledico il mio inutile apparato riproduttivo, che mi ha dato solo piacere (e mica sempre) e tante spese sanitarie mensili che, personalmente, avrei preferito impiegare in tartufi.

A questo penso, mentre stappo con voracità la bottiglia di Nebbiolo d’Alba 2010 di Flavio Roddolo, l’ultima superstite di una gloriosa cucciolata custodita in cantina. L’uomo con cui vivo ha tre bambine che amo – forse con qualche difficoltà per via della loro presenza pianificata che ci costringe ad un quotidiano a strappi – e che mi cercano, genuinamente.

Al primo sorso, mentre l’acidità amoreggia tranquilla con le spezie e i frutti, in camera delle bimbe scoppia una lite furiosa. Rappresaglie tra sorelle, le conosco bene. Tensione che sale e irrompe in un pianto stizzito, qualche urlo. Continuo ad annusare il calice, mi sento felice. È così che dovevano essere le mie giornate, così mi immaginavo da adulta. Tutto ciò che ho sempre desiderato avere è deflagrato nella mia vita senza che fossi preparata, eppure ho saputo sin da subito come comportarmi.

Amare i figli di altri.

Non è che ce lo prescrive il dottore, eh? Si potrebbe vivere pacificamente solo con il reciproco rispetto e la tolleranza dovuta al buonsenso, senza investire a fondo perduto cuore e coratella. La cosa si fa più straordinaria se ad amare sono donne che, per scelta personale o per volontà della natura, di figli non ne hanno.

Verso altro nebbiolo e mi sorprendo a formulare ragionamenti per i quali provo un certo imbarazzo. Ho sempre pensato che la vita fosse in complotto contro di me. Desideravo avere dei bambini e gli eventi hanno fatto di tutto per creare false aspettative, facendomi credere che sarei riuscita a sentire vita dentro il mio utero, per sbattermi in faccia la cruda realtà ogni volta che c’ero quasi. Volevo una famiglia e negli anni ho portato avanti senza troppa convinzione rapporti nati sbagliati che mi hanno tenuta a lungo in salamoia. Coazione a ripetere, dicono gli psicoterapeuti. Fino a che non decidi di cambiare strada, tenderai a ripetere gli stessi errori che ti portano a star male, a non realizzarti, creando un circolo vizioso.

Spezzare questo circolo non è stato un atto voluto. Io e il mio compagno ci siamo conosciuti più che maggiorenni, sufficientemente smaliziati e un po’ abbrutiti dai trascorsi di ciascuno. Non siamo quel genere di adulti che faticano a vivere l’età che si trovano addosso, anche se spesso è in asincrono con quello che si sente di avere. Bevo, rifletto: credo che questo sia un gran bel punto di partenza. È per questo che le bambine si sentono accudite e al sicuro, i ruoli sono chiari: i genitori sono quelli definiti dalla nascita e che daranno loro tutti gli strumenti per imparare a vivere, compreso l’amore incondizionato.

Io sono altro.

Cos’altro non saprei dirlo; dai tempi delle fiabe la matrigna è rappresentata come una figura divisiva, arcigna e dotata di una cattiveria gratuita che annienta. Oppure, nell’aneddotica disneyana, la matrigna è avvenente, giovane, perennemente inadeguata, spesso irrimediabilmente oca, ambiziosa, sempre mossa dalla volontà di allontanare il padre dalla progenie.

Per le fiabe non c’è più molto da fare visto che sono così da secoli, ma la Disney dovrebbe emanciparsi un po’.

Io, che sono una donna di mezz’età con un poca voglia di stravolgere le proprie abitudini, consolidate nel corso di diversi match persi tra quello che si desiderava e quello che si è ottenuto, non mi sento socialmente rappresentata dalla matrigna mannara, né, per raggiunti limiti di età, dalla bonazza gelosa delle attenzioni del compagno per i figli. In mezzo a questa antologia di luoghi comuni, ci sono un mare di donne che, come me, vivono attraverso gli occhi di bambini nati da altri amori, cercando di rendere naturalmente facile la presenza di una persona che entra nella loro quotidianità, facendo di tutto affinché siano sempre fiduciosi del sostegno di noi adulte capitate nella loro vita, e che siano felici, il più possibile. Perché come dice mia sorella, che la famiglia se l’è costruita in capo al mondo, per crescere un bambino ci vuole una tribù. Perché l’amore non è mai abbastanza, e se i bambini crescono circondati da altro amore oltre quello genitoriale, sono bambini sereni, saranno adulti più sicuri. Perché c’è sempre qualcuno che ascolta il loro respiro durante la notte, per assicurarsi che tutto sia a posto. Qualcuno che era talmente abituato a gestire le giornate con i propri tempi, che quando si è trovato a condividere la sua vita con esseri umani del tutto dipendenti, ha smesso di avvitarsi nei pensieri che gli sono sempre appartenuti ed è stato costretto a concentrarsi su altro da sé, scoprendo con sorpresa che tutto questo è bello, è vivo. Non è indispensabile aver generato vita per sentire la vita che chiama, che spinge e sposta il baricentro da sé ad altro.

Un ultimo sorso prima di chiamare bambine per sedersi a tavola, vista l’ora. La categoria di matrigna con il calice in mano, ecco il modello che manca alla retorica di genere. Perché non ci ho pensato prima?

Adesso è bene che smettano di fare casino, meglio che vada in camera loro a piantare il seme per qualche piccolo trauma infantile. Sia mai che si abituino a stare bene, che a noi matrigne piace foraggiare gli sceneggiatori di film natalizi con nuovi terrificanti aneddoti: del resto anche loro, forse, tengono famiglia.

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