Salvare la bottiglia o un’amica?

“Ho fatto il calcolo: è la terza cucina che compro per un altro!”

Ci siamo appena salutate e Francesca irrompe nella mia di cucina, con il passo del bersagliere;  il piglio di chi si trova a dover dare risposte all’uomo che non deve chiedere mai . In mano tiene un cesto pieno di avanzi del Natale passato da due giorni.

Sospiro. Ho capito che devo tirar fuori dal frigo una boccia superiore. Fortuna ho un Jacquesson Sette-e-qualcosa dalla bollicina potente e finissima: la farò ragionare, vediamo con quale umore uscirà da questa casa.

“La prima per Stronzino, la seconda per Babbeo e la terza per Mollicone. Al prossimo giro voglio andare dal notaio prima di varcare la soglia dell’Ikea. Dal notaio, sì, me lo deve mettere agli atti che la prossima cucina viene via con me!”

Verso i primi due bicchieri, metto un po’ di schifezze nella ciotola mentre scaldo le cibarie e la rassicuro: essere incazzati è un buon segno. Meglio infuocati che derelitti, è in gran forma e non mi pare sia la prima volta che risorge dalle sue ceneri.

“Quando mia mamma voleva dirmi una cosa bella, se ne usciva sempre con qualcosa di assolutamente orribile. Una frase brutta che nella sua testa voleva essere un complimento. Da piccola, per premiare il mio talento in cucina, mi augurava di diventare come Tita, la protagonista del libro Dolce come il cioccolato. Spero che tu non lo abbia letto”

No ma ho visto il film, aspetta che faccio un bel rabbocco. Mi sa che adesso devo bere seriamente anche io, ho paura del seguito.

“Ecco. Ma ti pare una bella cosa augurare alla propria figlia una vita senza amore? Ti sembra naturale che una madre voglia accanto a sé l’ultima delle tre figlie affinché possa farle da badante stellata e senza batter cassa? Insomma, io sono venuta su con un’idea dell’amore ancora più stravolta rispetto alle nostre coetanee che si limitavano a cercare un fidanzato biondo e con gli occhi azzurri come suggeriva Walt Disney. Io, cretina, ho sempre pensato che l’unico modo per dimostrare amore fosse la sofferenza. Più mi straziavo per amore e più il mio uomo doveva capire che tutto quel patimento altri non era che una dimostrazione di quanto fossi pazza di lui. E invece ero pazza e basta

A questo giro non mi riesce nemmeno di assaporare il contenuto del bicchiere, butto tutto giù sperando che mi faccia allentare le braccia e le gambe al più presto, così divento conciliante ed evito di assecondare l’istinto e tirarle le noccioline in testa con violenza. Faccio un altro carico ai nostri bicchieri, tento una risposta ma lei mi precede.

“E sai qual è la cosa che mi fa rosicare più di tutte le altre? È che volevo lasciarlo io, ma non l’ho fatto! Ho temporeggiato. E volevo farlo, lo sai quanto, vero? Eppure non l’ho fatto perché in base all’enunciato di prima, quello di Tita che doveva stare appresso alla mamma anziché sposarsi e figliare, ho voluto soffrire per dimostrare che io ci tenevo, io ci tengo all’amore; stavo facendo l’ultimo sforzo per noi. E per soffrire e dimostrare tutte queste fregnacce mi ha scaricato lui, e si è portato via pure la cucina! È proprio vero, tutto si riduce ad una mera questione di tempismo. Fortuna che ci sei tu e sei mia amica, finché ci sarà la nostra amicizia io non temo proprio nulla perché quante ne abbiamo passate solo noi lo sappiamo. Io ti voglio bene, ci sei sempre. A proposito, buono ‘sto prosecco! Che cos’è?”

E ciò che non le disse l’ultimo fidanzato, glielo sussurrai io.

 

 

In evidenza, l’illustrazione dal titolo “Il signor Scrofus finalmente esce con la baronessa Tavernesi del ramo degli Aravaldo” dell’amico Massimo Boccardini. Appropriata.

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