Adolescenti, amiche del cuore e coratelle.


Tre è il  numero perfetto solo quando riguarda la Trinità.

Se si è appena adolescenti, e si è in tre ragazze a sbrigare le prime cose da ragazze, non possono nascere che problemi legati a ruoli imposti da chi nella trimurti ha più capacità manipolatoria a scapito di chi invece si sente investita suo malgrado dal senso di responsabilità.

Nel 1990 avevamo appena scollinato i quindici anni. Io possedevo un Sì Piaggio color verde foresta metallizzato; Chiara uno spiccato senso dell’indipendenza e M***  una totale mancanza della misura. John Frusciante non era ancora uscito dal gruppo ma eccoci quasi.

Eravamo bellissime e non lo sapevamo.

io chiara

Tutti gli altri coetanei che conoscevamo erano così carini, pigri di testa e ben vestiti: non eravamo capaci di stringere amicizie vere perché nella provincia denuclearizzata venivamo tenute un po’ alla larga, vista l’incapacità totale di tener comportamenti socialmente codificabili. Le femmine facciano le femmine, i maschi si allenino a diventare maschi. Noi tre non eravamo carne né pesce, però vivevamo in simbiosi e appena tornate da scuola era necessità primaria organizzarsi per la giornata, andare in centro dopo i compiti e prima di cena, provare a capire come si usavano i tamponi e tentare di battere la vergogna per comprare le prime sigarette.

Odoravamo di spirito da teenager, e il sabato era il giorno in cui potevamo tirare fuori tutto quello che la nostra età spingeva durante tutta la settimana nel tentativo di esprimersi al meglio. Tornate a casa dal liceo, breve sosta al desco famigliare seguito da sonnellino ristoratore che durava dalle due alle tre ore, la stanchezza accumulata durante la settimana scolastica o gli ultimi colpi di coda del sonno di bambino. Alle sei del pomeriggio, doccia e vestizione dell’ancella: abiti studiatissimi per sembrare controcorrente con la società, nichiliste ma carine, minidepresse dalla pelle luminosa e occhiaie esaltate dal correttore Deborah preso al supermercato, che all’epoca aveva anche il reparto cosmetici. Nello zaino nascondevo un pacchetto di Philip Morris light rubato vuoto a mia madre quando faceva finta di fumare, che riempivo con sigarette sottratte con prudenza affinché non si accorgesse degli ammanchi. Inforcato il motorino fuggivo da Chiara, saluti di rito a sua madre ansiosissima e via in due senza casco: direzione centro storico dove ci aspettava M*** che era già lì dal pomeriggio. I ragazzi della nostra età si davano convegno in Piazza della Repubblica, davanti alla SIP che rimaneva aperta fino a mezzanotte. E lì iniziava il nostro sabato: gruppuscoli di mocciosi come noi che si guardavano di sottecchi, troppo timidi per interagire con il piglio che abbiamo acquisito con la maturità, sottofondo di pettegolezzi su chi si era messo con chi, cuori spezzati e friccicori malgestiti.

Sarà stato quello che si dice disagio adolescenziale, oppure era solo la voglia di provare a misurarsi con le cose da grandi, ma capitava puntuale che M*** tornasse da qualche bar del centro con tre birre danesi al sapor di succo gastrico da dividere con le amiche. Io non ne bevevo, non per responsabilità ma perché quella birra proprio mi faceva (e mi fa tutt’ora) schifo, dunque non era un problema per M*** finire la sua bella boccia, per poi passare alla mia e magari suggere un po’ anche dalla bottiglia di Chiara. Il tutto rigorosamente a stomaco vuoto e ben insaporito dalle prime sigarette fumate aspirando.

Quando si hanno quindici anni e poco più, si vive in una città chiusa come la nostra e non si ha un filarino ma gli ormoni sono continuamente sollecitati dalla tempesta per la crescita, l’esistenza del giovane vira irrimediabilmente alla copia carbone delle eroiche gesta di Jim Morrison, di cui si conosce tutto e ci si identifica alla perfezione. Non credo sia molto  lusinghiero per il compianto Morrison essere ascoltati e capiti da mocciosi con smanie di ribellione a decenni di distanza, ma così vanno le cose e forse lui lo aveva intuito quel giorno a Parigi, mentre si faceva il bagno.

Insomma, molto prima dell’orario di rientro pattuito con i genitori, io e Chiara -lei più a cuor leggero- ci ritrovavamo puntualmente a inseguire M*** per i vicoli medievali della città, mentre sfuggiva rapida e agile alla ricerca del serpente da cavalcare.

Cavalca il serpente qua, cavalca il serpente là, tempo mezz’ora e tutta la ribellione giovanile finiva con un glorioso schianto di sgottata in terra. Qualche rigurgito contro il sistema, dopodiché l’anarcoinsurrezionalista veniva caricata sul mio motorino per la riconsegna a casa, mentre nel tragitto pregavo iddio che l’aria fresca la facesse rinsavire e togliere quell’aroma di gioventù sperimentatrice di dosso.

Sono passati millenni da quei pomeriggi da costruire. Chiara, che fa tutt’ora parte della mia vita, da poco mi ha detto di aver riletto i diari di quando avevamo quindici anni, e che scriveva cose che potrebbe scrivere tranquillamente adesso. E non so se questo sia un bene.

Nel frattempo io non fumo più da un decennio e ho imparato a bere; M*** aveva solo anticipato quello che poi avrei sperimentato senza scomodare il povero Jim Morrison.

Raramente provo nostalgia per quello che sono stata, l’attesa del sabato carico di aspettative che non si realizzavano mai, le prime volte di qualsiasi cosa da segnare sul diario. Chissà se nel corso della sua vita, M*** è riuscita a mettere il sale alla coda di quel serpente; chissà che donna è diventata.

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