Il bere trionferà sul male?

Le Leggende talmudiche dicono che Noè, dopo averci salvato dal diluvio, piantò la vite con l’aiuto del diavolo, presentatosi sotto mentite spoglie. Questi asperse il terreno con il sangue di una pecora, di un leone e di un porco, a simboleggiare le conseguenze dell’abuso del vino. Un giorno Noè si ubriacò forte, denudandosi davanti al figlio Cam in un momento di mostrificazione estrema. Immaginate di trovarvi davanti vostro padre, delirante e con tutti gli offendicoli in bella mostra. Il poverino, che non sapeva cosa fare né dove guardare, chiamò a sé Sem e Jafet, i fratelloni, che percorsero girati di spalle la distanza tra loro e il babbo ubriacone, in modo da raggiungerlo senza ledere la dignità del genitore per poterlo coprire. Una volta smaltita la briscola, il babbo, irato con i figlioli troppo curiosi, scagliò un anatema tremendissimo maledicendo Canaan, schiavo degli schiavi dei fratelli suoi.

La riflessione, superficiale e approssimativa, nasce da un episodio conclusosi miracolosamente bene accaduto nel centro storico della mia città qualche settimana addietro: durante Umbria Jazz, una giovane studentessa americana in avanzato stato di ebbrezza, è caduta dal terzo piano di un palazzo riportando diverse lesioni interne. Il caso ha voluto che a chiamare l’ambulanza fosse mia nipote, che si è vista piombare a pochi metri da sé quello che a prima vista sembrava essere un enorme sacco.
Tra la nipotastra e la giovane americana corrono pochi anni di differenza; a breve Erika, se si concentra come dovere impone, terminerà gli studi superiori per affacciarsi alla vita come la studentessa americana.

Mentre scrivevo questa frase con l’affetto e la poesia che una ziona come me prova per la progenie, mi sono accorta della sinistra interpretazione che si può maliziosamente dare all’augurio. Siate seri.

Non è difficile, in una città accogliente che vanta la più prestigiosa e antica istituzione universitaria volta agli stranieri, imbattersi in gruppi di ragazzi in alterato stato di ubriachezza spesso molesta. Complice l’euforia della libertà e il facile accesso agli alcolici negato nei paesi di provenienza, spesso questi ragazzi perdono il senso della misura quantificando la riuscita della serata dal numero di muri marcati. Trattare l’argomento è come camminare sulle uova, e il rischio è quello di farne un discorso dalle considerazioni pressappochiste e inesatte.

Credo che il problema sia generazionale. Ho ricordi vividissimi dei pranzi in famiglia, dove il vino significava convivialità e non era raro o sconveniente versare poche gocce nel bicchiere dei bambini per far finta di brindare, imprimendo nella nostra memoria il preciso significato che il vino è parte del pasto, è allegria, condivisione. Insomma, le persone della mia generazione, dei nostri genitori, dei nonni e così via, sono cresciute con una precisa educazione alcolica che ha permesso di capire che si beve per la piacevolezza del bere, per il gusto del sapore (scoperto, capito e affinato da giovani adulti), per segnare il momento con gioia.

Cosa è accaduto, cosa è venuto a mancare affinché le nuove leve approfittassero così della disponibilità di alcolici, per darci dentro senza criterio e rischiando la propria vita durante una sbronza? Se è vero che il sangue non è acqua, è utile ricordare che siamo tutti figli dei figli di Noè.

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