La polvere sotto il tappeto.

Sono diventata abbastanza robusta per riuscire a raccontare questa storia, non senza sentire un po’ di disagio nel descrivere a grandi linee quello che mi è capitato. Ho tenuto sotto il tappeto un bel po’ di polvere; credo sia il caso di sollevarlo per fare prendere aria, perché quando si parla di violenza sulle donne pontificando sul perché non si denuncia l’aggressore, non riesco mai a trovare le parole giuste per descrivere cosa passa per la testa di una persona che è stata aggredita.

 

C’è voluto un altro trasloco per allineare tutte le bottiglie accumulate in questi mesi, dividerle in gruppi creati con una logica che adesso mi sfugge ma al momento mi sembrava l’unica possibile, e inscatolarle per il trasporto.

Adesso che le vedo così fuori contesto, mi rendo conto che sono davvero tante. E pensare che il vino inteso come lavoro è cosa recente.

C’è stato un momento nella mia vita nel quale il vino serviva a stordirmi. E lo faceva bene, perché lo bevevo assieme a certi pasticconi di sertralina cloridrato grandi così. E mi ero gonfiata tanto, se penso a quanto ero diventata gonfia provo tenerezza e rabbia incontenibili.

Frequentavo una persona più grande di me, in una città più caotica della mia. Non era una relazione vera e propria, ma una storia vischiosa e poco chiara.

Una sera, mentre mi trovavo nella casa di questo uomo, ricordo di averlo apostrofato usando la parola sbagliata: in quello che sembrava essere il preludio ad una discussione – l’ennesima – ho buttato lì un sei malato che mi ha fatto passare tanto così dal diventare l’ennesimo caso di cronaca. Quell’uomo si è alzato dalla poltrona su cui era seduto, scagliandosi con furia contro di me; mi ha afferrata per il collo sollevandomi da terra e cominciando a colpirmi sferrando pugni all’altezza dello stomaco.

La cosa che ricordo con maggiore nitidezza sono i suoi occhi, che normalmente erano chiari e che in quel momento erano diventati come quelli di un lupo. Si era trasfigurato, e io ero terrorizzata. Appena ha allentato la presa dal mio collo, sono scappata aprendo il portone di casa che dava sul pianerottolo ma quando ho guadagnato l’uscita mi sono sentita afferrare per le braccia, così mi sono ritrovata di nuovo in quella casa, buttata in terra e percossa ancora con calci. In testa mi stava arrivando di tutto. Mi sono finta svenuta.

Appena è stato possibile percepire che la furia animalesca andava calmandosi, lentamente mi  sono sollevata. Con molta calma, gesti misuratissimi e piccoli. Così, in un impeto di sopravvivenza mi sono lanciata ancora verso la porta, e nella frazione di un secondo ho realizzato che se questa fosse stata chiusa a chiave, per me sarebbe stata la fine.

La porta non era chiusa a chiave, e mentre mi fiondavo nel pianerottolo ho sentito ancora una morsa che mi bloccava il braccio, ma l’altro era libero e così mi sono attaccata alla ringhiera con tutta la forza che avevo.

Per una serie di percorsi mentali che non mi sono del tutto chiari, il cervello ha imposto il comando di gridare al fuoco, ché se avessi chiesto aiuto probabilmente nessuno sarebbe venuto in soccorso. È stato in quel momento che ho sentito il braccio libero, e il rinculo mi ha fatto rotolare per le scale.

Ero libera, ma ancora non mi sentivo al sicuro. Mi sono buttata per strada dove un tassista mi ha soccorso accompagnandomi dalla mia amica affinché mi portasse in ospedale. Prognosi di due settimane e segni attorno al collo che mi hanno costretta a maglioni tattici per dieci giorni.

Tornata nella mia città, ho iniziato a perdere il controllo di me. Mi mancava il respiro, venivo colta da nausea e terrore. Al centro antiviolenza dove ero stata dirottata da mia sorella, la psicologa ha capito di non essere in grado di aiutarmi. Ho avuto bisogno di uno psichiatra ma anche della sertralina. Stavo vivendo uno stress post traumatico coi fiocchi che non mi ha permesso di agire legalmente nei confronti dell’aggressore.

Non ho denunciato quell’uomo, avevo il terrore di doverlo incontrare di nuovo, fosse anche nella sede di un tribunale dove avrei dovuto essere al sicuro. Inoltre non potevo concedermi di rivivere quanto era accaduto, nemmeno nella memoria che avrei dovuto far redigere. E poi, insieme all’angoscia si era insinuato un sentimento di vergogna che non mi so spiegare. Nonostante fossi io la vittima, nei miei pensieri si era piantata l’idea che a scatenare quel demonio fossi stata io. Che la colpa era mia. E non mi sono data pace per tanti anni, perché non mi sono difesa, non mi sono presa cura di me e i motivi della mia incapacità a reagire erano tutti sbagliati; lo sapevo eppure non ho potuto fare nulla.

Mi sono portata addosso questo terrore tutte le volte che ho avuto a che fare con qualcuno; ricordo l’angoscia e la nausea quando un uomo si fermava a dormire da me. Ho faticato moltissimo per ristabilire un equilibrio che mi permettesse di non vedere un aggressore in chiunque avesse a che fare con me.

E adesso che ho tanti anni alle spalle, non riesco a immaginare come reagirei se vivessi quell’episodio ora. Ma più probabilmente sono diventata ciò che sono proprio perché l’ho vissuto allora, e lo posso raccontare.

 

 

 

Foto rubata dal sito Lombardiabeniculturali.it

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