Lo zio che non vi ho dato.

Accompagnare la nipote quasi diciottenne al locale dove era attesa dagli amici è stata la miglior cosa di questo primo maggio, iniziato con la doverosa telefonata di auguri ai miei genitori per il cinquantunesimo coraggioso anno di matrimonio.

Al telefono con mia madre credo di aver finito di espiare gli ultimi peccati recenti, quando con voce commossa mi ricorda che un anno fa annunciavo la mia gravidanza.

Sì madre, ricordo anche se vorrei dimenticare. E comunque ora che la mia relazione si è chiusa vorrei che non ti sentissi in dovere di farmi da chiavetta USB, andiamo avanti che la vita è lunga e santo è l’avvenir.

Dunque mi trovo con l’umore piatto in questo locale nella prima periferia della città, pieno di divanetti bianchi e tavolini bassi in PVC, puledri dalle caviglie scoperte e cerbiatte dagli occhi umidi che si studiano di sottecchi mentre due dj brufolosi pompano pezzi che ballavo nel 1998 riproposti all’ora dell’aperitivo come vecchi suoni che hanno fatto il giro della morte, e ora tornano prepotenti per far dire alle nuove generazioni sì lo ricordo, è di quando ero piccolo. Poco importa se nel tragitto in auto sono finita sullo Snapchat della nipotastra; ora sono qui e mi sto bevendo un secchio di Birra Perugia a distanza di sicurezza dalla gioventù spavalda. Sono pure vestita di nero come un kuroko e inosservata guardo la vita davanti a me, e penso.

Uh quanto penso.

Per i miei nipoti sono la zia che nelle foto si riconosce perché ha sempre il bicchiere in mano e accompagnatori diversi.

Sono nati mentre affrontavo la mia prima convivenza, dieci anni per abituarsi a uno zio gigantone dalle mani grandi come pale, lasciato dall’oggi al domani per un altro zio, professionista serio, così serio da non trovare il tempo per coltivare un rapporto con tanta vivace nipoteria, fino all’ultimo che –spero- rimanga impresso nella loro memoria come il miglior zio del mondo, solido come una roccia e divertente come nessun altro.

È stato inevitabile per i nipoti trovarsi invischiati negli affanni sentimentali della zia che faceva tappa fissa in casa loro per lenire, con bottiglie e chiacchiere infinite, i dispiaceri di amori burrascosi o malriposti; via uno zio, avanti uno stuolo di ziastri o aspiranti tali.

Prendo un’altra tanica di Birra Perugia. I ragazzi davanti a me si disperdono e raggruppano seguendo logiche che non conosco, chissà cosa stanno organizzando per la serata. Spippettano sigarette, sono agili, sono belli. Più belli di quando avevo la loro età. Anzi, a dirla tutta, quando ero ragazzina io quelli della mia generazione erano discreti rospi; noi sprizzavamo ormoni e brufoli in percentuali sbagliate; i ragazzi che vedo adesso invece sono sicuri della propria presenza, dello spazio che occupano.

Ora che i nipoti sono grandi abbastanza per capire di che pasta bacata è fatta questa parte della loro famiglia, spero di non deluderli con uno zio definitivo (finché dura). Certo non ho potuto offrir loro una famiglia di scorta dove rifugiarsi quando si è in lite con i genitori, o una camera d’emergenza dove avere accesso facile quando si torna all’alba. Però so che con me tra i piedi hanno capito quanto sia importante non perdersi di vista, anche quando si è controvento e le decisioni prese sembrano le più sballate. Che da un amore finito ci si riprende, ma è più dura ritrovarsi quando si perde il controllo della propria vita, magari proprio per colpa di un amore in corso. La ragazza più grande, che adesso è venuta a fumare una sigaretta al tavolo della signora che beve birra, lo sa. Lo ha capito, ed è felice di stare al tavolo con sua zia, la quale per omaggiare tanto vigore giovanile si è arresa all’evidente brufolone che nel frattempo le è spuntato in fronte.

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