Tignosa e tenace.

La mia autobiografia non autorizzata riporta quanto accadde al 1978. Avevo tre anni da un mese e come di consueto eravamo diretti ad Asiago, a casa dei nonni materni, per festeggiare il Ferragosto con il resto della famiglia. Papà decise di fare una piccola deviazione portando le sue donne a vedere Venezia. Arrivati al Lido, io decisi di fare il bagno. Era estate, c’era l’acqua. Era una richiesta più che ovvia. I miei naturalmente si opposero cercando di farmi ragionare: non eravamo andati là per fare il bagno, inoltre non avevo il costume né l’asciugamano; non c’era tempo e forse avevo mangiato da poco e la digestione non era terminata e potevo morire di digestione interrotta da bagno in acqua di mare, un rischio inaccettabile. Io non feci un capriccio, nessuno strillo da bambina alla quale viene negata la più impellente necessità: mentre loro questionavano sul perché e il percome, mi tolsi il vestitino e le scarpe, feci il mio bagno, poi uscii e mi asciugai al sole. Loro non avevano ancora terminato di enunciare i motivi per i quali non potevo bagnarmi che ero già pronta a visitare Venezia. Volevo fare il bagno e l’ho fatto, senza frigne bambinesche né consenso dei grandi.

Poi fu la volta della scuola da scegliere. Era il 1988, l’esame delle medie era alle porte così come la preiscrizione alle scuole superiori che da lì a poco avrebbe cambiato il nostro futuro di giovani promesse- o almeno così dicevano i professori all’epoca, ingentilendo l’ansia dovuta al passaggio tra pubertà e adolescenza diffusa tra i compagni di classe. Non bastavano le tempeste ormonali dei tredici anni palesate da voci rotte per i maschi e prototettine doloranti per le ragazzine, Lady Georgie che andava a convivere incestuosamente con i fratelli Abel e Arthur, l’indecisione tra scegliere la tendenza paninara che vigeva in classe o seguire le orme anarco-insurrezionaliste di mia sorella dark. No, a scalfire i nervetti puberali ci si misero pure i professori con le loro domande da cento milioni di lire: sei sicuro di voler tentare il Liceo Scientifico? Anche se a matematica vanti un misero “appena sufficiente”? Sicurosicuro? Io ad esempio ero brava in Italiano, Inglese e Disegno. La professoressa Salomoni un giorno lesse un mio tema davanti a tutta la classe, e terminò sentenziando: “Sara, tu sai scrivere”; e forse è per questo che ora ho un blog, perché la Salomoni mi benedì quel preciso giorno. Se non fossi stata graziata in classe probabilmente questi pensierini li scriverei sulla carta igienica la mattina prima di uscire di casa privando l’umanità di un tale tesoro. Io volevo fare il Liceo Classico, oppure l’Istituto d’Arte. I miei invece, non so come, riuscirono a farmi cambiare idea iscrivendomi ad un Liceo Linguistico.

Durai due anni in quella scuola fredda e impersonale: alla fine costrinsi i miei a seguire le mie inclinazioni, riuscendo a iscrivermi all’Istituto d’Arte Bernardino di Betto (tatàn!), e poco importa se dovetti ricominciare dal primo anno. Tornassi indietro rifarei tutto.

Così fu durante gli studi universitari: appena iscritta in un Ateneo fuori regione, mi guadagnavo il valsente per le uscite serali e le trasferte di studio lavorando in una boutique del centro storico. Siccome con i clienti ci sapevo fare, un giorno il titolare mi prese da parte tentando di convincermi che un contratto di lavoro sarebbe stato più gratificante di una laurea “che chissà che ci farai poi…”, e a pensarci bene guardando il passato, forse forse tutti i torti quel signore non li aveva, ma questo è un pensiero maturato molto dopo il conseguimento della gloriosa, sudatissima laurea. Solo molto tempo dopo quell’attestato, infatti, sono riuscita a trovare un lavoro che chiudeva degnamente il corso di studi compiuto: impiegata presso un museo nella città di Assisi, la realizzazione di un sogno. Solo un cataclisma avrebbe potuto farmi andar via da quel posto meraviglioso, ma si trattava di una circostanza improbabile.

Improbabile fino a che non si è verificata. Le scelte fatte per amore si presentano sempre a saldo, ma finisce che si paga un prezzo tre volte più alto del valore che hanno.

Dal giorno in cui lasciai quel lavoro ad un anno fa, la mia condotta è sempre stata in balìa delle circostanze che vivevo: più cercavo di trovare un punto per risollevarmi, più le cose si incastravano a mio sfavore. Lavori sottopagati o contratti con inquadramento Kunta Kinte, vessazioni da parte dei responsabili e sessismo level extreme dai colleghi uomini, precarietà costante tanto per ricordarmi che nella vita siamo solo di passaggio, figuriamoci in questa azienda. Sono stati anni duri, in pratica ho fatto il CAR senza che me ne rendessi conto. Così, quando si è concluso l’ennesimo rapporto di lavoro a causa di divergenze contrattuali, mi sono ritrovata in un’età infelice (la soglia dei quaranta), una professionalità multitasking formata nei vari ambienti di lavoro che avevo frequentato, e un’idea che germogliava in testa: accantonare la comodità dell’ennesimo lavoretto fatto tanto per fare, tornare a studiare e mettere a reddito una passione antica, quella per il vino. Così sono riuscita ad accedere a un corso a numero chiuso sulla commercializzazione dei vini nel mercato estero, ho iniziato a degustare e non più semplicemente bere, costringendo i miei amici a regalarmi l’iscrizione al primo livello AIS per il mio quarantesimo compleanno. E ho insistito con rara pedanteria per avere un colloquio di lavoro con il titolare della prima enoteca storica della città. La cosa strepitosa è che finalmente ho un contratto di lavoro a tempo indeterminato, a quarant’anni. La cosa avvilente è che il primo contratto di lavoro a tempo indeterminato l’ho avuto a quarant’anni, ma questo non dipende da me.

Da sempre, se dovessi descrivermi, non utilizzerei l’aggettivo tenace; eppure pur non sapendo di esserlo lo sono eccome. Lo sono e l’ho dimostrato a me stessa più e più volte, solo che è decisamente facile e comodo buttarsi giù senza pietà, perché dare luce al proprio talento e alle doti di cui disponiamo è per le persone del mio timbro una cosa imbarazzante, narcisistica, inappropriata, come quando non si è capaci di rispondere ad un complimento. Se mi viene fatto, come risposta tiro fuori sempre un mega difetto caratteriale o fisico per bilanciare il bel gesto, così facendo un esempio goffo, se mi si dice come stai bene oggi! io di getto rispondo eh, sì ma guarda che culone… Perché noi donne siamo poco portate a credere nelle nostre capacità, un po’ per cultura, molto invece a causa del peso specifico che ci viene dato all’interno degli ambienti di lavoro. Cerchiamo spesso il consenso del giudizio altrui per sentire la nostra presenza nel mondo. Lavoriamo tanto eppure veniamo pagate molto meno dei colleghi, quasi ci vergogniamo quando dobbiamo esporre un progetto. Temiamo le nostre idee e la nostra volontà nel realizzarle, credendo che sia meglio seguire le indicazioni di qualcun altro al di fuori della nostra testa ad essere più in grado di decidere cosa sia meglio per noi.

Beh, non è così.

E finché ho il permesso del mio fegato, continuerò a lavorare nel commercio dei vini, a scriverne, a condividerli con chi li apprezza e cercarne di nuovi. Oggi battezzerò un Gattinara Nervi con una bella bistecca con l’osso, perché chi lavora deve premiare le buone idee con un grande appetito, e io – non posso negarlo – ho gran quantità di entrambe le cose.

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